“I buchi neri sono considerati le fauci infernali dell’universo. Chi cade in un buco nero scompare per sempre; già ma in quale luogo? Cosa si nasconde dall’altra parte di un buco nero? Insieme ad ogni corpo fisico svaniscono anche il tempo e lo spazio? E se lo spazio e il tempo fossero uniti in un circolo senza fine? Che cosa accadrebbe se il futuro fosse in grado di poter offuscare il presente?”
“Tic-tac… Siamo tutti alla ricerca del nostro filo di Arianna, che ci mostri qual è la strada giusta, che ci faccia da guida nelle tenebre. Chi di noi non vorrebbe conoscere il nostro futuro? Sapere cosa lo aspetta? Ma la verità è che per ogni singolo tempo esiste solo una via ed un’unica via determinata e tracciata dal principio alla fine e rappresentante a sua volta un inizio”. Si tratta di frasi estrapolate dal quarto episodio (doppie vite) del serial tedesco Dark, uscito ufficialmente su Netflix l’1 dicembre.
Parole che, a mio parere, in parte esemplificano dieci episodi in cui ritroviamo una miscela di ingredienti più o meno già assaporati: ragazzi scomparsi; riferimenti esoterici; incroci tra presente, passato e futuro; pioggia di animali quasi in stile Magnolia; il prete apparentemente moralizzatore un po’ in stile The Young pope;
il dispositivo che apre un varco temporale e permette di spostarsi avanti e indietro nel tempo e ti fa venir voglia di invocare Emmet Brown, il Doc di Ritorno al futuro o ancora quei repentini passaggi spazio temporali generanti uno stato confusionale per cui pensi possa spuntare da un momento all’altro la scritta “Voyager”!
Alcuni elementi tendono a banalizzare i dialoghi e “stereotipare” la narrazione, che necessita di maggior suspense: mi riferisco a frasi non proprio originali come “lì fuori esistono cose che noi umani non possiamo nemmeno comprendere” o a spunti di riflessioni didascalici inerenti la genesi dell’uomo (creatura di Dio o prodotto dell’evoluzione) o concernenti i cambiamenti che potrebbero avvenire quando si cerca di cambiare il corso degli eventi.
A farla da padrona è una selva oscura ove ci si può smarrire imbattendosi in una galleria gravitazionale, che collega passato, presente e futuro, ma soprattutto un piacevole mix di brani indie/alternative, di elettronica e di pezzi anni 80’ che potenziano l’impatto visivo e mettono ancor più in risalto le capacità interpretative degli attori. Segnalo l’ipnotica Goodbye di Apparat, che firma la sigla della serie, diretta da Baran bo Odar.